Una rivoluzione all’insegna della libertà

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Il buono del sapere

Per secoli la pastasciutta è stata legata a pochi formati e, soprattutto a un numero limitato di condimenti piuttosto ripetitivi.

Ancora agli inizi dell’Ottocento Vincenzo Agnoletti condensa in una ricetta gli unici modi usati per servire i “maccheroni all’italiana”. La base per tutti è burro e parmigiano a cui si potevano aggiungere pepe e cannella, oppure panna, besciamella o ancora il sugo di carne derivato dalla stufatura di un grosso pezzo di manzo.

Un discorso a parte riguarda invece la pasta ripiena che racchiudeva già in sé gli ingredienti che davano gusto al piatto. Le farciture di carne, formaggio e verdura, erano più varie e lasciavano spazio alle tradizioni territoriali e all’inventiva di cuochi e massaie.

Seguendo l’evoluzione della cucina, nel corso del XIX secolo si riconoscono chiaramente i segni di una rivoluzione imminente che avrebbe investito per primo il Meridione d’Italia. È qui che la pasta inizia ad assumere un nuovo ruolo all’interno della dieta, grazie anche all’invenzione di piatti in grado di rompere l’antica monotonia. Alcuni di questi sono ancora oggi un simbolo della cucina italiana, come i “Vermicielli co le pommadore” descritti da Ippolito Cavalcanti nel 1837.

Ignorata da molti grandi ricettari italiani che continuavano a pagare un forte debito alla cucina francese, la pasta continuò però a diffondersi fino a che Pellegrino Artusi non ne divenne testimone e interprete portando alla luce questo movimento popolare che era sotto gli occhi di tutti, ma pochi ritenevano degno di essere raccontato.

Se la cucina è considerata una delle massime espressioni della civiltà italiana, lo dobbiamo in gran parte alla possibilità di creare nuovi piatti di pasta in infinite combinazioni. Senza la libertà di interpretare e modificare le ricette del passato, anche le più tradizionali, oggi non esisterebbe la cultura del cibo che tutti conosciamo e apprezziamo.

Luca Cesari, storico della gastronomia