Le stagioni in cucina
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Il concetto di “stagionalità” è recente, successivo cioè a quando si sono potuti utilizzare prodotti vegetali fuori stagione grazie da un lato agli scambi veloci e dal costo contenuto tra i due emisferi e, dall’altro, alle coltivazioni in serra e alla surgelazione; dopo, cioè, che il consumo dei prodotti di stagione non è stato più obbligato, ma è diventato una scelta. Parliamo di pochi decenni.
In passato (ma diciamo, più precisamente, fino a tutti gli anni Sessanta del Novecento) la stragrande maggioranza della popolazione utilizzava esclusivamente frutta e verdura di stagione, anzi di piena stagione, perché era la più abbondante e a buon mercato. Le cosiddette “primizie”, molto più costose, erano riservate ai più agiati e alle occasioni speciali. Ai prodotti di stagione corrispondeva una cucina con una forte impronta stagionale. Se si sfogliano i vecchi libri di cucina si può osservare che, quando le ricette non sono ordinate per mese, non mancano quasi mai in appendice liste mensili di prodotti di stagione, e non solo frutta e ortaggi, ma anche carni e pesci. Perché, come sottolinea un ricettario anonimo degli anni Trenta (L’arte di mangiar bene): «È cosa utilissima di sapere in quali stagioni i vari commestibili sono in abbondanza, per poter così comporre con intelligenza la lista dei piatti da farsi col minimo di spesa». È «inutile, oltre che poco economico, il volere fare sfoggio di cibi fuori stagione» decreta un altro ricettario (A tavola!, di Ines e Mimy Bergamo, 1932).
Perché questi ammonimenti in anni in cui il consumo di prodotti fuori stagione era praticamente impossibile? Perché la stagionalità era considerata, soprattutto dai ceti superiori, una gabbia da cui si cercava, potendo, di evadere. La cucina signorile rinascimentale e barocca (ma il modello originario è quello di Roma imperiale) non amava la semplicità e i sapori naturali, bensì la rarità e l’artificio. Un cuoco e la sua cucina venivano valutati innanzi tutto in base all’eccezionalità e al prezzo degli ingredienti: più erano introvabili, più li si considerava d’alto livello. La stagionalità e quello che oggi chiamiamo “chilometro zero” non erano minimamente apprezzati.
Poter disporre di risorse alimentari fuori stagione era però un’aspirazione universale, coltivata anche dai ceti più umili, che riuscivano a soddisfarla solo attraverso i metodi di conservazione più economici: essicazione, salagione e affumicatura. Per le persone di condizione leggermente superiore si aggiungeva la conservazione in aceto, olio d’oliva e zucchero (sciroppi e marmellate). Per tutti erano quasi dei riti tramandare per l’inverno i pomodorini a grappolo e l’uva fino al giorno di Natale, così come, al culmine dell’estate, preparare la salsa di pomodoro che sarebbe servita nelle altre stagioni.
Il valore della stagionalità è dunque un’acquisizione recente, frutto di convinzioni salutistiche ed etiche, al pari del chilometro zero, del biologico e del consumo responsabile. Pellegrino Artusi – proprio perché abituato a praticare una cucina di mercato e a coniugare scienza e arte, piacere e salute – può considerarsi, da questo punto di vista, un precursore. Sono numerose le ricette dove, per ragioni non solo economiche, si raccomanda di utilizzare esclusivamente verdura e frutta di piena stagione. La ricetta n. 422, per esempio, consiglia di preparare i carciofi «nel colmo della raccolta quando costano poco; però vanno scelti di buona qualità e giusti di maturazione», e nell’appendice “Cucina per gli stomachi deboli” si esorta a non far «uso che di frutta sana e ben matura a seconda della stagione».
Piero Meldini - Comitato scientifico Casa Artusi