Artusi, un gastronomo senza cavallo
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Nella ricetta n. 174 «Granelli fritti» di Pellegrino Artusi troviamo l’unico riferimento al cavallo di tutto il suo ricettario: «Del sapore di quelli [riferito ai granelli derivati dalla castrazione dei puledri maremmani] non posso dir nulla non avendoli assaggiati, benché del cavallo ed anche dell’asino chi sa quante volte, senza saperlo, voi ed io, ne avremo mangiato».
Nell’ultima frase è nascosta la storia di un antico tabù alimentare che stava arrivando agli sgoccioli, ovvero l’ippofagia, l’uso alimentare della carne di cavallo.
Artusi inserisce la ricetta fin dalla prima edizione del 1891 e, sebbene i macelli pubblici dei cavalli fossero già diffusi in tutto il Paese, la riluttanza a cibarsi di carne equina era ancora molto diffusa. Tra gli usi più sospetti c’era quello rivolto ai produttori di salumi di utilizzare parti di vecchi cavalli, asini e muli all’interno degli insaccati, in particolare nella celebre mortadella bolognese. Accusa senza fondamento per alcuni e pratica assolutamente lecita per altri, come il dott. Dialma Bonora che, nel 1896 pubblica un breve saggio all’interno degli Atti e memorie della Regia Accademia Virgiliana di Mantova, in cui svela le ragioni scientifiche dell’utilizzo della carne di cavallo. Secondo l’autore veniva impiegata nell’industria dei salumi per «dare l’aspetto rosso, il magro sodo, la grana delicata» agli insaccati e sopperire al fatto che le nuove razze suine inglesi introdotte da poco in Italia erano più povere di carni rosse e magre.
Nella sua testimonianza il dott. Bonora tralascia il fatto che la carne di cavallo all’epoca era molto più conveniente rispetto a quella suina e, contemporaneamente, la fiorente industria salumiera italiana in piena espansione richiedeva grandi quantità di carne a basso prezzo per sostenere le richieste del mercato.
Se oggi la carne di cavallo è una vera specialità in alcune zone d’Italia, all’epoca era guardata ancora con enorme sospetto. Come nota Artusi, oltre che essere mescolata ad altre carni all’interno degli insaccati, nelle trattorie veniva spesso spacciata per selvaggina - di solito daino o capriolo - a cui assomiglia notevolmente una volta cotta a dovere. Insomma, le leggende urbane che ancora oggi circolano sul gatto spacciato per coniglio (ormai un vero e proprio topos letterario), all’epoca riguardavano il cavallo smerciato per animali ben più nobili e costosi.
Il tabù alimentare aveva ragioni antiche e tra i primi provvedimenti conosciuti viene citata la lettera che Papa Gregorio III (pontefice dall’anno 731 al 741) indirizza a Bonifacio vescovo di Magonza, proibendo ai tedeschi di mangiare il cavallo, sia allevato che selvatico. Il suo successore, Papa Zaccaria, rinnovò l’esortazione anni dopo, segno che l’usanza era dura a morire. Il fatto è che le popolazioni asiatiche e germaniche si nutrivano tradizionalmente di cavallo, mentre per i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Inghilterra, rappresentava un vero e proprio tabù alimentare. Le ragioni sono molteplici e non staremo qui ad elencare le basi antropologiche di cosa è buono o non buono da mangiare, ma se qualcuno è interessato ad approfondire l’argomento, in fondo all’articolo troverà un paio di testi fondamentali sul tema.
Per ora basti dire che il cavallo non solo era considerato utile per il trasporto e temibile arma in combattimento, ma rappresentava un animale d’affezione quanto lo sono oggi i cani e i gatti.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento in Europa si apre un dibattito riguardante il cavallo. Inizialmente non viene avanzata la proposta dell’ippofagia, ma si punta a ridurre il numero dei cavalli superflui accusati di sottrarre risorse preziose ad altri tipi di bestiame, ben più utili in termini di resa di carne e latte.
Nello stesso periodo si assiste alle prime timide aperture sull’uso della carne di cavallo come alimento di sussistenza, ma solo in ambito militare, giustificate per sopperire alle mancanze di approvvigionamento delle piazze forti isolate. D’altronde in molti si ricordavano i casi d’ippofagia che si verificavano puntualmente in occasioni di lunghi assedi, quando la macellazione dei cavalli era considerata un male necessario.
Nel corso di poche decine di anni le condizioni sarebbero mutate a causa di una crescita demografica senza precedenti che avrebbe messo a nudo l’enorme scarsità di risorse alimentari, portando a livelli di povertà estrema una grande percentuale della popolazione.
La fame fu il primo e principale motore della revisione del tabù nei confronti del cavallo nel corso del XIX secolo. La concentrazione di una plebe miserabile nelle grandi città creò una situazione di allarme perenne a cui corrispose la nascita di un mercato clandestino di carne di cavallo. Gli animali a fine vita, inclusi quelli malati e stremati dalle fatiche, venivano macellati di frodo e spacciati a prezzi popolari.
Nella seconda metà dell’Ottocento le autorità italiane si decisero a regolamentare il mercato della carne equina istituendo macelli pubblici sotto il controllo dei veterinari. Prima in alcune città come Castelletto sul Ticino e Borgomanero nel 1854, a seguire Torino dieci anni più tardi poi Parma nel 1881 e nel resto del Regno con la legge del 1888. Nonostante tutto la diffidenza rimase alta e i manuali di cucina iniziarono a includere alcune ricette solo nei primi del Novecento sulla falsa riga di quelle già utilizzate per la carne bovina. Grazie ai consigli dei medici la carne di cavallo, anche cruda, venne di moda nel primo dopoguerra, quando l’accento si spostò sull’uso come rimedio all’anemia e altri disturbi.
Probabilmente è questo il periodo storico in cui si formano le specialità a base di cavallo destinate a diventare piatti tradizionali come la pastissada veronese e mantovana, gli sfilacci di cavallo, lo spezzatino (con la polenta) veneto, il ragù di cavallo presente in alcune zone dell’Emilia e nel barese e la battuta di carne cruda tipica del parmense.
Per chi volesse approfondire il tema dell’antropologia del cibo può iniziare da questi due testi fondamentali:
Claude Lévi-Strauss, Mitologica I. Il crudo e il cotto, Il Saggiatore 1966.
Marvin Harris, Buono da mangiare, Einaudi 2006.