Artusi tra arte e scienza

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Il buono del sapere

Artusi tra arte e scienza Il titolo dell’opera “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, ritenuta a buona ragione un capolavoro di divulgazione scientifica, mi ha da sempre intrigato.

Mi chiedevo il perché di quell’uso così netto dei due vocaboli “scienza” ed “arte”, a delimitare causa (in cucina) ed effetto (a tavola). In particolare, mi ponevo il dubbio se per arte fosse inteso il prodotto o artifizio dell’essenza culturale dell’umanità, in contrapposizione alla incontrollata opera della natura, oppure, più banalmente, la capacità di agire e di produrre secondo regole ed esperienza tecnica. Secondo quest’ultima accezione, allora, perché distinguere tra scienza e arte? Forse ché in cucina si costruisca il sapere e la conoscenza mentre a tavola se ne porta il distillato, filtrato attraverso la pratica e l’esercizio? In cuor mio, invece, serbavo il sentore che il rapporto tra arte e scienza costituisse una contrapposizione analoga a quella che si pone tra soggettività e oggettività.

Quindi, astraendomi dalla palude semantica delle definizioni, ho pensato di assumere il ruolo di esegeta della Opera magna dell’Artusi, soffermandomi sulla sostanza, più che sulla forma. Il mio è un peccato veniale legato alla mia formazione di chimico, sebbene mi si stia consolidando, in tarda età, l’idea che la sostanza sia solo l’impalcatura che rende la forma più attraente. In altre parole, senza forma la sostanza è inutile. Comunque, tornando all’Opera, trapela, fin dalla scelta del titolo, il desiderio da parte dell'autore di portare in cucina l'oggettività dell'approccio scientifico, che consiste nel rendere ripetibile e riproducibile lo stesso esperimento, vuoi che sia alla fiamma di un becco Bunsen o tra i fornelli di una cucina domestica Che si tratti di arte, intesa come mestiere, oppure di scienza, il lavoro dell’autore è quello di ripetere il risultato di un esperimento e di renderlo riproducibile in ogni laboratorio, anche gastronomico.

Perché, allora, la scienza resta circoscritta in cucina, mentre l’arte conquista la tavola? Devo forse ricredermi e attribuire all’arte il significato più aulico? Concedere al mangiar bene i confini ben più ampi dell'arte padrona, garantisce che, in fin dei conti, il verdetto sul risultato dell'esperimento scaturisca dal soggettivo apprezzamento edonistico, forte di un giudizio insindacabile da parte del degustatore sovrano. Un'opera d’arte culinaria suscita emozioni, e spetta allo scienziato gastronomo rendere quell'emozione ripetibile. Difatti, l’opera di un artista, quale un pittore, uno scultore, un poeta e finanche un musicista, gode di un vantaggio di non poco conto: è immutabile nel tempo e il suo apprezzamento non ne altera l’essenza. Invece, l’opera di uno chef è effimera, essendo deperibile. Ancora peggio, per apprezzarla veramente, occorre consumarla.

Per questa ragione è necessario definire uno standard di qualità oggettiva, che chiama nuovamente in causa la scienza: occorre la certezza di poter godere ancora della stessa esperienza. L’analisi sensoriale valuta, secondo schemi oggettivi, gli attributi organolettici della pietanza, effettuandone una misura mediante i sensi, con la finalità di tracciarne un quadro distintivo. Non basta! Per arrivare al conclusivo apprezzamento dell’opera d’arte depositata nel piatto, non è neutrale l’atmosfera e, quindi, non ci si può emancipare dal ruolo integrante esercitato dalla nostra psiche. Infine, il passo da apprezzamento a prezzo è molto breve. Un noto industriale alimentare della nostra regione mi confidava che i consumatori del suo prodotto erano disposti a pagare un prezzo più alto, rispetto a quello concesso ai concorrenti, perché ne riconoscevano la qualità sensoriale. Per questo motivo avrebbe pensato di rivolgersi al mio centro di ricerca per definire uno standard di esperienza sensoriale da associare al suo prodotto tale da renderlo inconfondibile in modo riproducibile. Ma questa è tutta un’altra storia: quella dell’innovazione.

Professor Francesco Capozzi

Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Direttore Centro Interdipartimentale di Ricerca Industriale sull'Agroalimentare