Artusi e la piadina, storia di un pane “dimenticabile”
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Perché Artusi non dedica nemmeno un cenno alla piadina? Potrebbe essere una semplice dimenticanza, ma sarebbe stata una leggerezza davvero imperdonabile. Probabilmente i motivi sono altri.
Di ricette oggi ne conosciamo a decine: impastate con l’acqua, il latte, con l’olio o il tradizionale strutto, azzime, con il solo bicarbonato o con il lievito, alte, basse, sfogliate. Pellegrino Artusi, romagnolo di nascita, non poteva ignorare l’esistenza della piada, ma di fatto non compare nemmeno una versione tra le 790 ricette del suo manuale di cucina.
Anche la crescente bolognese (ricetta n. 194), -meglio conosciuta con il diminutivo crescentina- viene liquidata in un capoverso «…schiacciata, o focaccia, o pasta fritta comune che tutti conoscono e tutti sanno fare, con la sola differenza che i Bolognesi, per renderla più tenera e digeribile, nell'intridere la farina coll'acqua diaccia e il sale, aggiungono un poco di lardo. Pare che la stiacciata gonfi meglio se la gettate in padella coll'unto a bollore, fuori del fuoco».
Piada e crescente, due preparazioni talmente comuni e semplici che, secondo l’autore, non avevano bisogno di istruzioni o suggerimenti. In fondo si trattava di semplici impasti di acqua, farina e sale, tutt’al più arricchiti con poco grasso di maiale. Almeno dalla metà dell’Ottocento la piada aveva conosciuto una diffusione enorme, tanto che Giovanni Pascoli la definisce «il pane, anzi il cibo, direi, nazionale dei romagnoli [...] È pane affrettato e ognuno lo fa da sé. È il pane primitivo». Il poeta, anch’egli romagnolo, le dedica una celebre poesia in cui descrive piuttosto bene le fasi di preparazione: innanzitutto la farina viene setacciata, poi si impasta il solo fiore con acqua e sale, infine la piada viene stesa e appiattita in un disco rotondo per essere cotta sul testo arroventato da un fuoco di sarmenti, gambi di granturco, canapule e ramoscelli.
Sebbene non avesse traccia di lardo o strutto, quella di Pascoli si può già considerare una piadina raffinata, da signori, composta solo da fiore di farina. I contadini più poveri ne facevano un’altra versione. Ne parla, tra gli altri, Gisberto Ferretti, medico condotto di Terra del Sole e Castrocaro, nonché direttore sanitario delle celebri terme,che pubblica la Topografia medica del Comune di Terra del Sole e Castrocaro nel 1873. Come molti medici della sua epoca, si era impegnato a descrivere le condizioni igienico-sanitarie del proprio territorio, cercando di individuare le cause delle malattie che colpivano i ceti più poveri. Tra le poche notazioni riguardanti il cibo, trova spazio anche la piadina.
Le pizze poi o focaccie, qui dette volgarmente piéde, non sono che pastoni fatti con acqua, poco sale e pochi pugni di farina di frumentone, o di un miscuglio di questa e di farina di grano, i quali collo spessore di uno o due centimetri si distendono su rotonde lastre infuocate e, rivoltandoli, ci si lasciano fino a compiuta cottura. Molto raramente il povero bracciante si permette il lusso di fare la piéda di schietta farina di grano e solo nelle ricorrenze solenni vi aggiunge poche uova e poco lievito.
Questo pane schiacciato, fatto di farine di frumento e mais poteva essere accompagnato da erbe di campo, come i rosolacci lessati e saltati in padella oppure, nei giorni di festa, tagli di bassa macelleria in umido. Poveri companatici descritti nel bel volume di Graziano Pozzetto La piadina romagnola tradizionale (Panozzo editore 2005) che ricostruisce la storia della piadina attraverso fonti e testimonianze.
Probabilmente la semplicità di esecuzione, oltre alla connotazione di povertà che si trascinava dietro, ha contribuito a farla passare sotto silenzio nell’opera di Artusi. Non una dimenticanza, ma una scelta, in favore di ricette più ricche, elaborate e borghesi, tre tratti che non dovremmo mai dimenticare quando leggiamo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene.
Visto che Artusi non ne parla, propongo uno stralcio della poesia di Pascoli, che è quanto di più simile a una vecchia ricetta per la piadina. Siamo nel 1909 e il poeta romagnolo inserisce in una raccolta anche l’ode a questo semplicissimo pane, preparato con amore dalla sorella Maria.
Giovanni Pascoli, Nuovi Poemetti (1909)
La Piada
[...]
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l’odore del pane empie la casa.
[...]