Con Artusi, per Dante

Data
Il buono del sapere

Nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321 si spegneva a Ravenna, sui lidi romagnoli non lontani da Forlimpopoli, Dante Alighieri: si chiudeva un’esistenza difficile e travagliata, segnata dalla frattura profonda dell’esilio e della condanna a morte, e solo negli ultimi anni più raccolta e tranquilla, anche per il ricongiungimento con la famiglia. Nella luce abbagliante dei mosaici delle basiliche ravennati trovava pace la vicenda al tutto eccezionale che dalle sofferenze dell’esilio e dalle ingiustizie della storia aveva fatto sorgere il miracolo – assolutamente e per tutti inaspettato e imprevedibile-- della Commedia. Nelle terzine del poema si componeva la vicenda insieme di un uomo, dalla giovinezza fiorentina agli studi di filosofia, dall’impegno politico alle peregrinazioni per mezza Italia, e di tutta l’umanità, nella storia comune del precipitare nell’abisso del male e della faticosa risalita verso il perdono, la salvezza, la pace. Il sorriso di Beatrice, non più solo la ragazza tanto amata della gioventù, ma la maestra delle verità ultime, accompagnava il chiudersi di una storia personale che lasciava ai lettori e agli ascoltatori dei secoli a venire l’esempio altissimo di una poesia inimitabile, di una creatività linguistica mai più e da nessuno raggiunta allo stesso modo.

Dante poeta conosciuto dai colti e dai meno colti, trasmesso nelle centinaia di copie manoscritte e nelle stampe, ma anche tramandato dalla e nella memoria popolare; Dante è presente nelle nostre immagini, nelle nostre espressioni proverbiali, nei personaggi e nelle situazioni indimenticabili: patrimonio comune e vivo di una comunità a cui ha dato una lingua, le parole e le strutture per pensare il pensiero, per pensare la realtà.

Anche Artusi, nel suo studio assiduo e scrupoloso, ha amato fedelmente Dante, facendo di lui una presenza familiare e quotidiana, sentendolo come il maestro di una lingua che andava cercando per le sue scritture, e soprattutto per il libro che tanto avrebbe contribuito all’identità del popolo italiano. Ce lo racconta benissimo qui Monica Alba; ed è anche questo un modo significativo per rendere onore – insieme a Artusi, attraverso Artusi – al grande poeta fiorentino.


Giovanna Frosini – Professoressa ordinaria di storia della lingua italiana, Università per stranieri di Siena, Accademica della Crusca



Artusi e Dante di Monica Alba (Università degli Studi di Urbino; collaboratrice dell’Accademia della Crusca)

Una città viva, moderna, traboccante di cultura, di arte e di storia appare Firenze agli occhi di Artusi, quando vi giunge, pellegrino, alla metà dell’Ottocento. Lì Artusi frequenta musei, gallerie, la biblioteca Magliabechiana e quella Nazionale, si iscrive alla Società di Antropologia, e si affilia, dal 1890, alla Società Dantesca. Proprio sotto il segno di Dante, Artusi muove i primi passi verso la conquista del fiorentino, di quella «bellissima lingua, culla dell’italiana», come lui stesso ebbe a dire, che nella sua dimensione più viva e vera avrebbe reso la Scienza in cucina un libro rivoluzionario. Tra le pagine della Commedia, così illuminanti da impararle a memoria, Artusi trova il tesoro della lingua italiana e la consapevolezza di non essere nato per il commercio. Con lo spirito da autodidatta, quale egli è, una volta intrapresa la strada del sapere, Artusi non può più fare a meno dei libri, diventando un lettore insaziabile e uno scrittore brillante. Nella libreria di casa di piazza D’Azeglio, in cui spiccano gli autori che hanno fatto la bellezza dell’italiano, Dante occupa il posto d’onore, come dimostra il Catalogo dei libri redatto da Artusi stesso, oggi conservato, insieme alle carte del gastronomo, nell’Archivio di Casa Artusi. Dante è persino più volte citato nella Scienza in cucina; un’operazione coraggiosa quella di Artusi, che tuttavia non sminuisce affatto la figura e la grandezza del sommo poeta, ma la rende semmai accessibile al vasto pubblico. Artusi strizza l’occhio al lettore colto, e contemporaneamente stimola la curiosità di quello meno educato alla lettura. Così, ad esempio, nella ricetta della Crema alla francese (n. 688), il gastronomo antepone alle indicazioni sulla preparazione del dolce un ricordo personale e una lunga riflessione sul modo di cucinare la selvaggina da piuma:

Eravamo nella stagione in cui i cefali delle Valli di Comacchio sono ottimi in gratella, col succo di melagrana, e nella quale i variopinti e canori augelli, come direbbe un poeta, cacciati dai primi freddi attraversano le nostre campagne in cerca di clima più mite, ed innocenti quali sono, povere bestioline, si lasciano cogliere alle tante insidie e infilare nello spiede

Come fa notare l’autore stesso in queste righe, il tono medio che solitamente accompagna la descrizione delle ricette è abbandonato e sostituito da un registro più elevato, adottando il lessico proprio della lingua poetica: un vero espediente letterario, che permette ad Artusi di introdurre alcuni versi della Commedia, utilizzati per spiegare, con un denso e dotto parallelismo, il suo turbamento alla vista di quei «variopinti e canori augelli» impigliati nelle reti dei cacciatori:

e io sol uno;

m’apparecchiava a sostener la guerra

sì del cammino e sì de la pietate,

che ritrarrà la mente che non erra.

Si tratta di un frammento del II canto dell’Inferno, il prologo della prima cantica, dal secondo emistichio del v. 3 all’intera terzina successiva, in cui Dante, unico fra tutti, si accinge a compiere nell’oscurità della sera l’impresa infernale, di cui la sua memoria infallibile avrebbe fatto tesoro. Un cammino arduo, fisicamente e spiritualmente, che sin da subito provoca in Dante una guerra interiore, un forte contrasto tra un umano senso di pietà verso le anime dannate e l’approvazione dei loro castighi secondo quanto gli impone la coscienza religiosa.

Artusi prova dunque i medesimi sentimenti danteschi, da un lato una profonda «pietate per quei graziosi animalini», come scrive poco dopo, dall’altro la consapevolezza «che al male, quando non ha riparo, per amore o per forza bisogna acconciarvisi», insegnando al cuoco come «cucinar con più garbo» la cacciagione. Se per la ricetta n. 688 Artusi non cita direttamente l’autore della Commedia, riportando su un piano più familiare la portata allegorica delle terzine, nella ricetta n. 733, sente la necessità di richiamare la paternità dantesca del verso 114 del XVI canto del Purgatorio. Descrivendo il procedimento della Conserva dolce di pomodoro, tanto buona quanto bizzarra, Artusi rassicura i lettori che se «non rimane qualche semino, che ne faccia la spia, nessuno indovinerà di che sia composta», perché, come dice Dante: «ch'ogni erba si conosce per lo seme».

Artusi, tuttavia, nel disseminare riferimenti colti, non si limita alle immagini più concrete dell’Inferno o a quelle più terrene del Purgatorio, ma si spinge oltre. Nella Cucina degli stomachi deboli, appendice inserita nella quattordicesima edizione della Scienza in cucina, dopo aver messo nero su bianco le prescrizioni dietetiche per i sensibili di stomaco, Artusi così conclude: «Messo t’ho dinanzi: ormai per te ti ciba». È il verso 25 del X del Paradiso, in cui Dante, approdato nel cielo del Sole, invita il lettore a volgere lo sguardo verso l’alto, e ad ammirare la perfezione divina delle sfere celesti. Attraverso l’immagine del bravo scolaro, Dante sprona il lettore a rimanere nel suo banco e a ripensare alle sue parole, attraverso le quali ha potuto pregustare la visione celeste. Irrompe così il verso 25: mettere innanzi nella lingua trecentesca assume il significato di ‘mettere in tavola’ una vivanda, qui metaforicamente rappresentata dall’ordine divino; pertanto, Dante, e Artusi attraverso di lui, esorta i lettori, a servirsi da soli del cibo che lui stesso ha imbandito sulla tavola, e cioè, in altre parole, a mettere a frutto gli insegnamenti appena ascoltati.

Vale la pena ricordare da ultimo un altro importante rimando; a proposito della ricetta dell’Anguilla arrosto, Artusi scrive: «Potendo, preferite sempre le anguille di Comacchio che sono le migliori d’Italia se non le superano quelle di Bolsena rammentate da Dante». Il gastronomo fa riferimento al XXIV canto del Purgatorio, alla vicenda di papa Martino V, al secolo Simon de Brion, canonico e tesoriere della chiesa di Tours. Con grande accuratezza terminologica, Dante ci informa che il papa si trovava tra i golosi perché in vita era stato ghiotto non di anguille qualsiasi, ma di quelle di Bolsena, sempre accompagnate dalla vernaccia. Le «anguille di Bolsena e la vernaccia» rappresentano l’unico riferimento esplicito e dettagliato di un alimento e di un vino della Commedia, che evidentemente Artusi non si lascia scappare. Su quali fossero le anguille migliori, e se «sua Santità facesse cuocere le anguille nel vino» Artusi è interrogato da Olindo Guerrini, il bibliofilo e letterato di Forlì, in un lungo dibattito epistolare.

Al di là del quesito, rimasto senza soluzione, il dotto Guerrini trovava nel dialogo con Artusi il gusto di parlare di gastronomia: «in arte, una discussione sul cucinar l’anguilla vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice» avrebbe scritto qualche riga dopo. Artusi era riuscito a riabilitare l’importanza di mangiar bene, aveva dato alla cucina una lingua comprensibile, l’aveva resa arte e scienza. Ci volle tanta fatica, lunghi anni di studio e di prove tra libri e pentole, perché per Artusi, come ricorda nella ricetta del cuscussù, la cucina «non è impresa da pigliare a gabbo».