Guerrini Olindo | 14/09/1897 | n.1926
Trascrizione CCM
Ch.mo Signor mio
Stamane con mia moglie ristudiavo il suo libro per certa “polenta pasticciata”, riuscita poi benissimo e, come sono solito, scorrevo qua e là il volume per mio diletto. Io son nativo di Sant’Alberto, proprio sul margine delle “Valli di Comacchio” e perciò quasi compatriota delle anguille più celebri del mondo, dopo quelle di Bolsena, diventate immortali per un verso di Dante. Perciò, rileggendo il suo capitolo delle anguille trovai qualche cosa da notare e da dire. La lieta conversazione dei Bagni della Porretta, che i miei figli ricordano caramente, mi fece capire che Ella non è uomo da prendere a male un modesto consiglio. La cordiale cortesia che provai in lei, me ne assicura.
Tutto il principio del suo capitolo sulle anguille è da mutare. Andava bene quando ella lo scrisse, ma dopo che il prof G.B Grassi dell’Università di Roma ha ottenuto dalla società reale di Londra il massimo dei premi che uno scienziato possa ambire, appunto per gli studi sopra la generazione delle anguille, bisogna correggerlo.
Dopo i lavori del Grassi, il mistero della generazione delle anguille e dei murenoidi congeneri, come il congro, sono molto schiariti. Già i pescatori pratici conoscono bene il maschio dalla femmina all’aspetto. Questo non so se lo dica il Grassi, ma lo dice il Bullo di Chioggia, parlando degli allevamenti e delle pesche nelle “valli” venete. Intanto il Grassi nota che, quando le anguille di acqua dolce sono mature per la generazione, tornano al mare per riprodursi. È la calata, come ella ben dice. Ma in mare non si trovano più. O perché?
Gli è che scendono a più di 500 metri di profondità. Ivi le ova sono fecondate. Pare che sia necessaria alle anguille questa forte pressione delle acque e questa oscurità dei fondi per riprodursi. Ivi certi organi loro si modificano per la necessità dell’ambiente , (come gli occhi) e si adattano al nuovo modo di vita. Le uova fecondate si schiudono, là nell’abisso e ne vien fuori, non un’anguilla, ma larva d’anguilla.
Questa larva, fino agli studi del Grassi, fu stimata un pesce e fu chiamata “Leptocephalus brevirostris”. Il Grassi, allevandola nell’acquario, la vide mutare e diventare piccola anguilla ( le cieche d’Arno) proprio come il girino diventa rana. Le anguille piccole poi, risalgono i corsi dei fiumi (la montata) finchè cresciute e diventate atte a generare ritornano al mare alla loro volta.
Ma delle anguille vecchie che generano nell’abisso, che accade? Pare che muoiano, perché, con le modificazioni dell’occhio e del resto, non appaiono e non rimontano più. E questo accade non delle sole anguille ma di tutti gli altri murenoidi in forma di biscia, il cui sangue, cotto e inghiottito è innocuo, come il veleno della vipera; ma iniettato è velenoso e mortale; come Ella sa degli studi del Mosso. Il sangue dell’anguilla è velenoso se si introduce direttamente nella circolazione sanguigna, ma l’anguilla è tanto buona! Del resto, i nostri vecchi tenevano per gran rimedio il brodo di vipera e il povero babbo mio mi raccontava che da giovane aveva mangiato per esperimento, con certi compagni suoi, la vipera cotta e l’aveva trovata buona.
Ma, per tornare alle anguille, non rimane più oscuro che il modo con cui si compie la fecondazione, accadendo il fatto a più che 500 metri di profondità del mare; però le ova fecondate, il girino (leptocephalus), e la sua tramutazione in anguilla rimontante, sono scientificamente osservati e provati.
Gli studi del Grossi furono fatti nello stretto di Messina, luogo dove le anguille mature concorrono e il modo principale della ricerca è curioso. Un pesce (Oithagoriscus niola) è ghiottissimo delle larve d’anguilla e le và a cercare in fondo e gli studiosi hanno trovato nel suo stomaco gli elementi dello studio. Così nel catalogo dei pesci è scomparsa tutta la famiglia dei leptocefali diversi, i quali non erano che larve diverse di diversi murenoidi e si è trovato che l’anguilla fa le ova a profondità grandissime e che dalle ova nascono, non anguille, ma larve, che come i girini, si tramutano poi in una forma perfetta.
Vede che erudizione, da vero compatriota delle anguille! Ma gliela ho voluta sfoderare tutta benchè abbreviata, perché Ella vegga quel che c’è da modificare nel capitolo del suo libro per metterlo, come si dice, in corrente.
Ed ora lasciamo le anguille.
Dove Ella parla delle animelle si potrebbe mettere che queste glandule (laccétt nell’Alta Italia_ latti nell’Emilia_ ris in francese ) sono la glandula timo che si trova nei mammiferi lattanti (compreso l’uomo) e che scompare in loro a poco a poco, quando cessano di prendere il latte; e l’ufficio di questa glandula è poco meno misteriosa della generazione delle anguille.
E ancora. (scusi se la secco, ma ho finito.)
La dove Ella parla, e bene, dell’ufficio della saliva (nei maccheroni alla bolognese) si potrebbe aggiungere che molti cibi passano per indigesti a torto. Veda; la trippa, le seppie, la polenta e molti non passano. E perché? Sono cibi menci e molli ai quali per lo più si dà una strizzata tra la lingua e il palato e poi si inghiottono. Lo stomaco, poveretto, deve far tutto il resto con grande fatica sua e spesso non ci riesce e se ne dà la colpa al cibo. Così per esempio capitava a me con la trippa della quale sono ghiotto. Mi restava sullo stomaco come una palla di ferro. Ora, ammaestrato dall’esperienza, la mastico come si mastica l’arrosto e ne ho il vantaggio che la gusto meglio e la digerisco benissimo. Se ella quindi insisterà su questa necessità della perfetta masticazione, specie pei cibi reputati indigesti, farà un’opera buona.
Ma proprio non mi riesce di finire. Vorrei darle qualche mia ricetta, ma non oso. Una però, che non è mia, gliela voglio dare.
In tutti gli alberghi di Francia e di Svizzera si trovano, in qualsiasi stagione, le prugne giulebbate; piatto economico, sano e che, mangiandosi freddo, si mantiene quanto si voglia. Io lo faccio l’inverno così:
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Prendete dal droghiere o dal fruttaiolo un chilogramma di prugne secche: ma non di quelle tonde che hanno solo la pelle e l’osso, tutte fiorite di muffa bianca. Prendete di quelle grandi, lunghe e sugose, che, per essere acidette e polpose, riescono meglio. Lavatele bene perché non si può mai sapere e la pulizia in cucina non è mai troppa, indi lasciatele in molle nell’acqua fredda un’ora o due perché gonfino un poco. Sgocciolatele e mettetele in una casseruola o stagnata o smollata con 200 grammi di zucchero (o più, o meno, secondo il gusto), quattro bicchieri di vino, (o tre di vino e uno d’acqua, per economia) un bicchiere di Marsala (non un bicchiere da tavola, ma uno di quei bicchieri minori in cui si serve per solito il Marsala) e scorza di limone, o d’arancio, o odore di vaniglia, secondo i gusti. Fate bollire a fuoco moderato la casseruola per due o tre ore, ma adagio assai perché le prugne non si riducano in pappa. Ad ogni modo sentitele perché il grado di cottura dipende dalla qualità delle prugne e alcune in mezz’ora sono già cotte. Levatele col mestolo forato e mettetele nel vassoio dove devono essere servite. Levate gli odori e le buccie dell’intinto, anzi se occorre schiacciatelo, e ristringetelo facendolo bollire scoperto e a fuoco ardente. Ristretto che sia, versatelo sulle prugne e servite freddo. È un dolce che non costa molto, si mantiene per settimane e piace a tutti. Ognuno poi può variare il profumo, gli ingredienti e il dolce grado di dolcezza a piacere.
Credo ormai di averla infastidita un po’ troppo. Me lo perdoni perché Ella vede bene, che la colpa è un poco anche sua e delle sue cortesie con me e i miei ragazzi, che si ricordano a lei, mentre mia moglie rimpiange l’occasione perduta di vederla a Porretta.
Scusi quindi l’indiscrezione e mi abbia per suo indegno discepolo e devoto servo
Olindo Guerrini
Bologna 24_IX_’97