Trevisan Francesco | 30/03/1907 | n.1664
Trascrizione CCM
Povolaro vicentino [VI] 30 marzo 1907
Carissimo sig. Pellegrino,
Ella petrarcheggia cantandomi che "Zefiro torna" con quel che segue. Costì, nella bella Toscana e nella bellissima Firenze sarà così, e forse i fiori saranno già nati; ma qui, non ostante il seguito di fulgidi giorni, ogni dì tira un vento «impetuoso per gli avversiardori» che alla notte si fa gelido e ci prepara per la mattina, sempre, la brina e il ghiaccio. S’immagini quanto sia stato rigida la temperatura quest’inverno; la qual temperatura, quantunque poi siasi mitigata, lasciò per eredità, anche qui, quell’influenza, che pare, ogni anno da parecchi in qua, sia lo strascico dell’inverno. Anche da noi, in questa provincia, infierì e fece stragi, in alcuni Comuni, segnatamente di fanciulli e ragazzi. io, che mi vanto di essere oggimai un ragazzo vecchione, fui risparmiato, finora; né ebbi a soffrire che molto freddo, per quanto io abbia una casa ben riparata e riscaldata. Ora, sento, con viva compiacenza, che Ella ha superato felicemente ogni malanno, e per ciò, canto l’Alleluia della Pasqua e Le faccio i miei augurii cordiali, in fretta per rispondere ad altri punti della sua lettera graditissima. Del Carducci Le scrissi l’ultima volta, e, ad un po, del D’Annunzio. Del primo, malgrado i suoi molti meriti, lessi tutte le incensazioni e gli eccessi, che a me parvero stomachevoli. È un feticismo; ma passerà anche questa ebbrezza, nata, com’Ella dice, da tendenze di natura, ed io aggiungerei anche da ciò che ora si dice suggestione. Di ciò vorrei parlarle a lungo, ma parlarle, non scriverle, il che sarebbe impossibile e imprudente: se non che noi non ci vedremo più mai, né perciò potremo parlare. Le dirò solo questo che un suo lodatore clericale, pur riconoscendo l’alto valore del poeta, giustissimamente osservò che non è popolare. Ed io e Lei e moltissimi altri, che stentano ad afferrare l’eccelso pensiero, non crederanno che mai il Carducci diventi popolare. Ed allora le sue poesie, anche le barbare, rimarranno pascolo ai pochi dotti, ai quali daranno “vital nutrimento”, come dice il Poeta Sommo, seppure le avranno “digeste”. Il Rapagnetta, che si vanta d’essere il poeta della terza Italia, è ancor più nebuloso, senza avere la profonda dottrina del suo “maestro” com’egli lo dice. Lessi non solo la famosa Canzone, ma anche la Commemorazione, ch’egli fece del Carducci a Milano. La Canzone la intesi al manco male, studiandola: e, se non altro vi trasparisce una tal quale coloritura e forma petrarchesca; ma la Commemorazione è qualche cosa di tenebroso e parto di uno che delira, com’Ella dice, nel sogno. La studiai, ma non ci capivo che qualche tratto qua e là; quasi quasi non si saprebbe di chi abbia voluto parlare, se i giornali non avessero schiamazzato prima e dopo la strabiliante lettura, e se una volta, una sola volta, egli non avesse nominato il protagonista del suo discorso, ch’egli cercò d’illuminare con lunghi periodi di prosa tenebrosa. Ma, a sentire la stampa, e specie il Corriere (che forse n’avrà accaparrata l’edizione per amor della solita gloria cupidigia quattrinaia), fu qualche cosa di portentoso. Nel leggere poi, anche su per alcuni altri giornali, che gli uditori (certamente numerosissimi) hanno spesso applaudito, io chiedo a me: or, che cosa avranno compreso del mistico linguaggio, s’io leggendolo tranquillamente, non intesi che pochi pochissimi tratti? Oh! Sig. Pellegrino, a questo mondo, e immezzo all’alta società letteraria, aristocratica, borghese c’è troppo spesso da fremere. Ma basta: il mondo fu, è e sarà sempre tale. Perdoni il mio sfogo! Intanto la ringrazio io per l’attenzione usata al Serena. Esso è buono, grato a chi gli mostra affetto; ma è distratto perché incalzato da un lavoro continuo. Credo che scriverà qualche cosa sul «Cultura e lavoro», che, però, esce una volta al mese e spesso con ritardo. Io l’avevo già prevenuto che a Lei avevo parlato di lui, e lui già La conosce assai bene. Spero che, sebbene in ritardo, fassi il debito, che impone la urbanità! Quella sig.ra di Mantova, co(ntessa) Gioppi, ebbe il dolore di perdere la sua figliola maggiore, moglie del tenente colonnello Campi, a Bergamo. Eccole sbarcate le mie nuove, ch’Ella desiderava: ora, rinnovandole cordiali auguri, Le stringo, idealmente, la mano e me le professo tutto suo Francesco Trevisan.